Il brigantaggio e la questione meridionale: storia, cause e caratteristiche | Studenti.it (2024)

Il brigantaggio e la questione meridionale: storia, cause e caratteristiche | Studenti.it (1)

Quando si parla di Brigantaggio, bisogna tenere a mente un concetto molto importante. Nel 1864 il celebre politico Massimo d’Azeglio scrisse: «Si è fatta l’Italia senza averla mai studiata né conosciuta. Ora scontiamo noi l’ignoranza di Cavour delle varie parti della penisola. Voler agire su un Paese senza averlo neppure veduto». In effetti, fino a quel momento, la maggior parte dei politici piemontesi non avevano mai visitato le regioni del Sud.

Camillo Benso, conte di Cavour, che si vantava di aver viaggiato in lungo e in largo per l’Europa, non si era mai spinto più a sud di Firenze, e oltre l’Arno non andò mai. E al ritorno disse al suo segretario: «Meno male che abbiamo fatto l’Italia prima di conoscerla». Luigi Carlo Farini, invece, che era anche medico condotto, quando nel 1860 fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente, non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio aristocratico disprezzo: «Che Barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile!».

1.1La questione meridionale

In quegli anni si cominciò dunque a parlare di questione meridionale, per denunciare il ritardo economico e culturale in alcuni centri nel Sud del Paese. Ciò nonostante, lo scrittore francese Stendhal nel 1811 scriveva: «Debbo dire ciò che più mi ha colpito arrivando a Milano? Lo scrivo solo per me: è un certo odore di letame, il quale mi diceva chiaramente che mi trovavo a Milano». E il giudizio di un suo connazionale, il celebre antiquario francese Aubin Louis Millin, non era meno sferzante: «Gli uomini e i bambini cenciosi che chiedono l’elemosina — e che sono insopportabilmente importuni — ci avvisano che siamo entrati in Italia».

Alcuni viaggiatori stranieri dell’epoca, inoltre, consideravano i torinesi molto diversi dal resto degli italiani, soprattutto per il loro carattere che, dicevano, forse a causa del clima rigido, nulla aveva in comune con la gaiezza tipica degli abitanti della Penisola. E del resto, per spostarsi più facilmente da una città all’altra del Nord Italia, ancora non c’erano i treni come a Napoli dove, nel 1839 per volere di Ferdinando II, era stata costruita la prima linea ferroviaria, lunga circa sette chilometri, che collegava in soli nove minuti — trainando otto vagoni — la città con il piccolo comune campano di Portici attraverso il “Vesuvio”, una locomotiva a vapore.

Sempre Napoli fu la città protagonista delle novità, e infatti appena due anni prima il sovrano aveva fatto illuminare le strade della capitale del Regno delle Due Sicilie con 350 lampade a gas, la prima illuminazione pubblica nel Paese e la terza in Europa dopo Parigi e Londra.

Le preoccupazioni destate dall’annessione del Regno delle Due Sicilie non derivavano solo dall’incontro di una società giudicata subito inferiore, da generiche e fallaci impressioni negative su comportamenti, costumi e modi di vita diversi dai propri, ma anche da una questione assai più concreta: il brigantaggio.

2Il brigantaggio postunitario

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Le diffuse preoccupazioni riguardo al dilagante fenomeno del brigantaggio nelle regioni del Sud, non solo sembrava confermare le prime impressioni a proposito del carattere ancora selvaggio e barbaro delle popolazioni meridionali, ma costituiva un pericolo per la stessa Unità poiché fecero temere gravi conseguenze a livello internazionale: il fatto che una parte del Paese si opponesse con violenza al nuovo Stato avrebbe potuto essere considerato dall’opinione pubblica europea un segno di debolezza.

La delusione delle masse contadine seguita all’iniziale entusiasmo per Garibaldi e per le sue promesse di miglioramenti sociali ed economici era stata abilmente strumentalizzata da Francesco II di Borbone che, dopo la sconfitta, aveva pensato di servirsi dei briganti per riconquistare il suo regno.

Il secolare problema delle usurpazioni delle terre e la situazione economica generale peggiorata dopo le iniziative doganali unitarie di Cavour fecero sprofondare il meridione in uno stato di povertà, degrado e disoccupazione. Il dissolvimento dell’esercito borbonico spinse anche sottufficiali e soldati a darsi al brigantaggio e così fu necessario l’impiego massiccio della forza attraverso l’invio al Sud di truppe agli ordini del generale Enrico Cialdini che comandava oltre cinquantamila uomini.

Alla violenza e alla ferocia dei briganti l’esercito rispose con altrettanta violenza e con rappresaglie che colpivano anche le popolazioni che appoggiavano le bande, accusate per questo di “manutengolismo”. Sotto questo aspetto l’episodio più noto è quello di Pontelandolfo e Casalduni, due paesi vicino Benevento, completamente distrutti dall’esercito come rappresaglia per le violenze commesse dai briganti nei confronti di alcuni soldati inviati per una ricognizione.

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Il piano di ritorsione fu istantaneo e perentorio: bisognava esemplarmente e immediatamente vendicare l’uccisione dei soldati con la distruzione dei due paesi e con lo sterminio degli abitanti. E l’ordine fu esplicito: «il doloroso e infame fatto di Casalduni e Pontelandolfo deve essere castigato in modo che di quei due paesi non rimanga più che pietra sopra pietra».

Cialdini, consultandosi con altri generali, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi «meno i figli, le donne e gli infermi». L’ufficiale Melegari scrisse nei suoi ricordi: «Era giunto finalmente il momento di vendicare i nostri compagni d’armi, era giunto il momento del tremendo castigo».

2.1Il brigantaggio e la strage di Casalduni

Egli impartì l’ordine di circondare e assalire Casalduni coi fucili spianati e le baionette inastate e, senza incontrare resistenza, tutti cominciarono a sparare, a incendiare iniziando dalla casa del sindaco, a colpire quei pochi disgraziati rimasti nel centro. In breve le abitazioni si trasformarono in un rogo desolante e la sciagurata punizione assunse proporzioni disumane e catastrofiche.

«Tutti correvano alle finestre, ai balconi, alle porte per rendersi conto di ciò che accadeva. I soldati, slanciandosi per le scale del paese e nelle case; abusando dell’ora presta, della nudità, del sonno, dello spavento dei cittadini, si abbandonarono a fatti orrendi, a saccheggi sozzi, azioni infami».

La sparatoria non risparmiò nessuno: furono uccisi giovani e vecchi, donne e fanciulle, chi protestava la propria innocenza e chi accorreva in difesa anche dei piccoli, pure quelli che si erano offerti, per antica convinzione, di combattere a fianco dei Piemontesi. Assassini, violenze, sopraffazioni, razzie costituirono l’ardimento vendicatore. Le cronache, vicine al tempo, riferiscono nomi di uomini insensatamente ammazzati lungo le vie o nelle abitazioni, di donne violentate o uccise con particolari che spingono al ribrezzo.

Anche Pontelandolfo, dopo l’agghiacciante eccidio, fu avvolta dal crepitio delle fiamme e rasa al suolo. Il giorno dopo, mentre i cittadini di Pontelandolfo e Casalduni, sfuggiti alla mostruosa catastrofe, attendevano a spegnere il fuoco, il colonnello Negri annunziò al Comando di Napoli per telegrafo: «Ieri, all’alba, giustizia fu fatta per Pontelandolfo e Casalduni».

La Gazzetta di Torino titolò: «Esempio spaventevole, ma giusto, necessario». La libertà andava portata nelle campagne del Mezzogiorno con qualsiasi mezzo. Non era convinto però Massimo d’Azeglio che in una famosa lettera pubblicata anche da parecchi giornali osservò come fosse contraddittorio definire illegittimi i governi che non avevano il consenso popolare e poi «dare archibugiate a quegli italiani che non volessero unirsi a noi (...) abbiamo altresì cacciato il sovrano di Napoli per istabilire un governo sul consenso universale con sessanta battaglioni. E sembra che ciò non basti...».

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Lo scontro tra i briganti e le truppe dello Stato italiano si andò configurando come una vera e propria guerra civile, soprattutto quando Garibaldi, partendo dalla Sicilia, decise di liberare Roma dal governo pontificio al grido di «Roma o morte». Il governo presieduto da Urbano Rattazzi reagì duramente: Garibaldi fu fermato in Aspromonte e nel 1862 fu decretato lo stato d’assedio nel Mezzogiorno, che durò fino a novembre. Ma lo stato d’assedio risultò essere inefficace, e venne istituita una commissione d’inchiesta composta da nove deputati — ognuno di una zona geografica diversa — che percorsero le province dove più era presente il brigantaggio e osservarono luoghi e condizioni di vita dei contadini che, secondo Nino Bixio, erano «in ritardo di almeno tre secoli» sul resto d’Italia.

Nella relazione presentata alla Camera si scrisse che servivano: diffusione dell’istruzione pubblica, affrancazione della terra, costruzione di strade e nuove attivazione di lavori pubblici. Sapevano tutti però che ci sarebbe voluto troppo tempo e intanto si sarebbe rischiato di perdere il Mezzogiorno. Non restava che ricorrere ad una legislazione eccezionale attraverso cui legalizzare ancora una volta la repressione: la Legge Pica.

Il titolo completo della legge era Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Provincie infette e per la sua applicazione venivano istituiti sul territorio delle province definite come “infestate dal brigantaggiotribunali militari. Si trattava di una legge speciale che, di fatto, era incostituzionale e divideva in due l’Italia: da una parte il Centro e il Nord e dall’altra tutte le regioni del Meridione. Quindi, questa Italia unita, già dal punto di vista giuridico e normativo veniva separata.

La legge stabiliva che poteva essere qualificato come brigante (e, dunque, giudicato dalla corte marziale) chiunque fosse stato trovato armato in un gruppo di almeno tre persone. Veniva inoltre concessa la facoltà di istituire delle milizie volontarie per la caccia ai briganti ed erano stati stabiliti dei premi in danaro per ogni brigante arrestato o ucciso.

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Veniva punito con la fucilazione (o con i lavori forzati a vita, concorrendo circostanze attenuanti) chiunque avesse opposto resistenza armata all’arresto, mentre coloro che non si opponevano al fermo potevano essere puniti con i lavori forzati a vita o con i lavori forzati a tempo (concorrendo circostanze attenuanti), salvo, però, maggiori pene, applicabili nel caso in cui costoro fossero stati riconosciuti colpevoli di altri reati.

Nelle province definite “infette”, venivano istituiti i Consigli inquisitori che avevano il compito di stendere delle liste con i nominativi dei briganti individuando così i sospetti che potevano essere messi in stato d’arresto o, in caso di resistenza, uccisi. L’iscrizione nella lista, infatti, costituiva di per sé prova d’accusa. In sostanza, veniva introdotto il criterio del sospetto: in base ad esso, però, chiunque avrebbe potuto avanzare accuse, anche senza fondamento, anche per consumare una vendetta privata.

In sostanza, la legge Pica non faceva alcuna distinzione tra briganti, assassini, contadini, manutengoli, complici veri o presunti, uomini o donne. La legge Pica, fra fucilazioni, morti in combattimento ed arresti, eliminò da paesi e campagne circa 14.000 briganti o presunti tali e causò più morti di tutto il Risorgimento.

4Il brigantaggio in Calabria e Basilicata

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Sul brigantaggio il poeta cosentino Vincenzo Padula scrisse: «Il brigantaggio è un gran male, ma male più grande è la sua repressione. Il tempo che si dà la caccia ai briganti è una vera pasqua per gli ufficiali, civili e militari; e l’immoralità dei mezzi, onde quella caccia deve governarsi per necessità, ha corrotto e imbruttito. Si arrestano le famiglie dei briganti, ed i più lontani congiunti; e le madri, le spose, le sorelle e le figlie loro, servono a saziare la libidine, ora di chi comanda, ora di chi esegue quegli arresti».

Gli farà eco Corrado Alvaro che nel 1925 scriverà: «i forestieri, quando si ricordano della Calabria, parlano sovratutto dei briganti. Ma, per la verità, pochi sanno che cosa sia stato veramente il brigantaggio e come sia nato».

Il brigantaggio copre solo una parte della Calabria, dalla provincia di Cosenza alle attuali province di Catanzaro e di Crotone. Resta molto celebre la figura della brigantessa Maria Oliverio, detta Ciccilla, nata a Casole Bruzio in provincia di Cosenza, arrestata insieme alla sorella, senza apparente motivo, al fine di ricattare il marito brigante (Pietro Monaco) e costringerlo a costituirsi.

Uscita di prigione, allora ventenne, uccide la sorella per calunnia e si unisce alla banda di briganti del marito. Verrà accusata di innumerevoli reati: sequestri, rapine violente e a mano armata (chiamate grassazioni), furti, incendi, omicidi, uccisioni di animali domestici. Sarà poi protagonista di rapimenti e sequestri di esponenti di ricche famiglie nel cosentino finché, dopo la morte del marito, fuggirà in Sila assieme al resto della banda.

Secondo Alexandre Dumas: «Uno dei proprietari di Cosenza che aveva avuto ragione di dolersi crudelmente del capo… tagliò la testa di Monaco, la fece seccare in un forno e la tenne in casa per ornamento del suo scrittoio». Arrestata e condannata a morte, anche a lei verrà permutata la condanna in lavori forzati e morirà nel carcere di Fenestrelle (Torino) che negli anni successivi divenne simbolo della spietata repressione piemontese.

4.1Il brigantaggio lucano

Il più celebre tra i briganti è sicuramente Carmine Crocco. Lucano, classe 1830, nasce in una famiglia contadina. In età adulta si mette a capo di una rivolta guidando numerosi soldati sbandati dell’esercito borbonico e anche contadini armati. Imprigionato, evade dal carcere e si dà alla macchia seguito da una banda criminale. Nel corso degli anni, le file della sua banda s’ingrossano, fino a contare quasi duemila uomini. Dopo il 1870, quando Roma diventa capitale del Regno, Crocco viene catturato e, passato sotto la custodia italiana, processato e condannato a morte. Poco dopo la pena verrà tramutata nei lavori forzati a vita. Morirà in carcere nel 1905.

Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria.

Carlo Levi

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